Viaggio nel Pollino:
la carovana è la mia mente, la strada sono le cose che amo, la meta è la mia terra e il viaggio è la mia vita

martedì 13 settembre 2011

Fortapàsc e Giancarlo Siani: QUANDO IL GIORNALISMO DIVENTA PUBBLICA INDIGNAZIONE, DENUNCIA E SINCERO ANELITO ALLA LEGALITA’


Il titolo del film, diretto da Marco Risi e dedicato alla memoria del padre (il grande regista Dino, morto a pochi giorni dal primo ciak), viene dalla frase pronunciata dal sindaco colluso di Torre Annunziata, Cassano, (condannato a sette anni e mezzo e rientrante a pieno titolo in quell’aspirale di tangentisti e faccendieri, in quel mondo di commesse e corruzione, sordo alle idee di Siani che si muovevano, come oggi Saviano, per una Napoli, per un’Italia migliore), dopo l’ennesima strage della camorra: “Non siamo a Fort Apasc”. La pellicola, andata in onda il 5 settembre sulla Rai, non è l’ennesima agiografia di una vittima annunciata della camorra, lasciata sola e dimenticata dallo Stato e dalla collettività, ma è un ricordo esteso alle tante vittime della criminalità organizzata, oltre che la ricostruzione della vita semplice e al tempo stesso appassionata, come le pagine impetuose che scriveva sulla filosofia della malavita organizzata, di Giancarlo Siani, giovane giornalista, o meglio “praticante, abusivo”, come amava definirsi, del “Mattino”, col sogno, non molto diverso da quello di un giovane d’oggi, di un contratto giornalistico, ma con la differenza di volersi impegnare nella denuncia del degrado che lo circondava, attraverso un’inchiesta incriminante contro i boss camorristi e i politici collusi. Nello specifico, Siani, incomincia a diventare personaggio scomodo quando s’interessa degli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto dell’Irpinia del 1980 nei dintorni del Vesuvio, un giro di miliardi su cui la camorra ha messo le mani. E’ il 23 settembre del 1985 quando Giancarlo Siani a soli 26 anni, a bordo della sua mitica Citroën Méhari (sempre la stessa, così fragile ed identificabile da essere una metafora perfetta), viene ucciso sotto casa della sua fidanzata dal clan Nuvoletta, perché reo di aver fatto il suo lavoro, di essersi informato, di aver verificato criticamente le notizie, di aver indagato sui fatti e soprattutto di aver messo a fuoco conflitti interni alla camorra e le connivenze di questa con la politica locale.

Sullo sfondo c’è Napoli e l’isteria collettiva che circondava negli anni ottanta Maradona, involontario capopolo, occasione di riscatto, speranza di rivalsa calcistica e sociale, sul ricco Nord. Napoli come corpo corruttore e Napoli come generatrice di “antidoti” capaci di riequilibrare, moralmente, l’ordine esistente.

Dalle kafkiane riunioni comunali o i pubblici comizi in cui le arti demagogiche del sindaco (celebre la tempesta esplosa proprio mentre si parlava della necessità della legalità in Campania e il commento di Siani: “Quella pioggia poteva fare pulizia, ma anche la pioggia a Torre Annunziata diventava subito fango”), che si ergono ad emblema caratterizzante un certo modo di fare politica (ahi noi oggi imperante), alla citata differenza tra giornalisti-giornalisti, di cui Giancarlo faceva parte e con lui tutti coloro che mettono continuamente a repentaglio la propria vita, nella ricerca della verità, e giornalisti-impiegati che in un clima di intimidazioni e connivenze, ad essa non s’interessano, anzi la nascondono, ai vicoli minacciosi e diroccati del centro storico, in cui la tensione aumenta e si respira un’atmosfera di morte, quella delle varie faide in atto, e dove si percepisce chiaramente la prepotente legge dei più forti: degli Alfieri, dei Gionta, dei Nuvoletta e di tutti i clan che comandavano ieri come comandano oggi. Un contrasto lampante con lo sguardo dolce e tenace di Giancarlo, che sorride ingenuamente mentre i killer lo uccidono senza pietà, quasi come se non celasse la consapevolezza che il suo sacrificio non sarà vano, anzi servirà a mutare qualcosa, nel senso che concorrerà a svegliare le coscienze… ma solo se tutti noi sapremo conservarlo nella nostra memoria civile.

In Fortapàsc viene messa in piazza una classe politica che mira alla propria autoconservazione, una società “incivile”, che distrugge ogni possibilità di progresso ed un giornalismo (impiegatizio) che continua ad ignorare le proprie responsabilità nell’alimentare una simile condizione di degrado morale, sociale, civile.

lunedì 5 settembre 2011

IL GRANDE CAPO

Siamo sul Pollinello e l’aria rarefatta e fresca ci accarezza il viso con la leggerezza di un battito d’ali. Nonostante sia estate, l’afa è rimasta a valle, quasi a segnare il confine tra due scenari, due mondi completamente diversi. Ci arrampichiamo sui costoni per vedere da vicino i pini loricati, ma quanto più ci avviciniamo alla meta, tanto più la vegetazione si fa rada, così come i meravigliosi faggi che le facevano da cornice.

Ed è allora, nel momento in cui non vi sono più alberi a nascondere alla vista l’incredibile panorama dall’alto, che, quasi d’impatto, si apre sorprendentemente dinnanzi a noi un’immensità così dirompente che siamo costretti a fermarci, a sospendere per qualche attimo il nostro cammino. Da quassù tutto appare così infinitamente piccolo, noi ci sentiamo così piccoli ed insignificanti, come gettati nella nostra datità e legati a quel momento, a quel luogo, alla limitatezza del nostro corpo.
Come nella sindrome di Stendhal, il nostro umano sguardo non è in grado di abbracciare tutta la bellezza in cui s’imbatte, non può sostenere la vista di una simile ineffabile grandezza e, inevitabilmente, sopravviene quel senso di vertigine e sgomento, quello stesso che pone l’uomo davanti a se stesso, al mistero della vita e della morte, all’inesplicabile esistenza di Dio e di una natura così viva e vera. Quasi che occorresse sentire quell’angosciante sensazione di “perdita”, di “mancanza”, per poter avvicinarsi al senso delle cose e restituir loro un nuovo, più autentico valore.
Però, riconoscere un limite, come scriveva Martin Heidegger, è anche superarlo; per cui dobbiamo proseguire, anche perché ormai i pini loricati si ergono davanti a noi, in tutta la loro eleganza, nella loro immobilità-dinamicità modellata dal vento e dagli agenti atmosferici, e ci attirano con la loro fortezza, dalla quale traiamo anche la nostra. Ancora il Patriarca, o “padre-capo”, dal greco antico, non si vede.
Occorre andare al di là della dolina, che sembra quasi una steppa. Lo sguardo avido può per il momento riposare e cedere alla sensazione di profonda serenità interiore di cui, in quest’orizzonte più circoscritto e rassicurante, la montagna e i pini millenari ci fanno dono.
A questo punto, ecco scorgere il superbo e potente gigante che vive lì, sfidando da secoli ogni sorta di intemperia, arroccato silente ed enigmatico, al punto da essere un tutt’uno con la roccia sottostante. La lucentezza del tronco tortuoso e la possenza dei rami contorti ci dà come l’impressione di trovarci al cospetto di un anziano saggio, che pare celare l’inesplicabile segreto dell’essere. Ci sediamo sulle possenti radici, per riposarci e godere della tranquillità che ci trasmette la sua fisicità dirompente, allo stesso modo in cui un bambino si abbandonerebbe sulle gambe del nonno ed incantato ed ammirato lo guarderebbe attento per ascoltare ciò che più di caro ha da insegnargli e trasmettergli. Così, sazi di tutti i sensi, avvolti dall’eterea atmosfera, rispettosamente ci rincamminiamo verso la valle, nella convinzione di rivederci presto.

GIOVANNI PASSANNANTE: l'eroe Lucano e l'arroganza dei Savoia

Lo strepitoso attore Lucano, Ulderico Pesce, con questo film, racconta la storia dell'Eroe Lucano Giovanni Passannante, dell'insorgere della questione meridionale con le sempre misere condizioni della Nostra Terra a fare da scenario.


Passannante nacque a Salvia (OGGI INGIUSTAMENTE SAVOIA DI LUCANIA), nel 1849, ultimo di 10 figli. Le difficili condizioni economiche della sua famiglia ebbero una decisiva influenza sulla sua formazione. Cresciuto nel tentativo di affrancarsi dalla fame, che lo costringeva a lavori saltuari da bracciante e guardiano di greggi, si recò a Potenza, dove trovò lavoro come sguattero presso un'osteria. Più tardi un capitano dell'esercito (nativo come lui di Salvia), notato il vivo interesse del ragazzo per gli studi, lo prese a servizio presso di sè e gli assegnò un vitalizio che gli consentisse di integrare la propria istruzione scolastica.
Abbracciate le idee repubblicane e poi anarchiche simulò, allo scopo di far aprire un risonante processo di carattere politico, un attentato ai danni di Umberto I° di Savoia e di sua moglie Margherita, in visita a Napoli nel 1878. Al momento dell'attacco al re, brandendo un coltellino avente una lama di 4 centimetri, definito al processo "buono solo per sbucciare le mele", gridò: "viva la Repubblica Universale".
Giovanni Pascoli, intervenendo ad una riunione socialista a Bologna, diede lettura di una sua ode dedicata a Passannante. Di tale ode si conosce solo il contenuto dei versi conclusivi: "con la berretta di un cuoco faremo una bandiera". All'agitazione antimonarchica, che interesso il paese dopo l'azione di Passannante, si tentò di far fronte con una pesante opera di repressione che investì l'intero territorio italiano. I famigliari dell'attentatore, colpevoli solo di essere suoi consanguinei, furono arrestati e condotti al manicomio criminale di Aversa. Il Sindaco del paese di origine di Passannante fu costretto a recarsi al cospetto del Re implorando perdono ed umiliandosi al punto di offrire ai Savoia il nome del suo paese che così mutò da Salvia a Savoia di Lucania.
L'anarchico fu condannato a morte, sebbene il codice penale prevedesse la pena capitale solo in caso di morte del Re e non di ferimento. Successivamente con Decreto Regio del 1878, la pena gli fiu commutata in ergastolo, che Passannante scontò in condizioni disumane sull'Isola d'Elba, rinchiuso in una cella alta solo 1,4 metri (mentre lui era alto 1,6 metri), priva di latrina, posta sotto il livello del mare, rimase senza poter mai parlare con nessuno e visse in completo isolamento per anni tra i propri escrementi legato ad una catena di 18 chili. Passannante affrontò questa tortura abberrante piuttosto che farsi passare per pazzo ed evitare così ciò per cui aveva agito: un processo politico davanti alla corte costituzionale. Le condizioni disumane di detenzione di Passannante furono oggetto di una denuncia, dell'On.le Agostino Bertani e della giornalista Anna Maria Mozzoni, a seguito della quale il prigioniero ormai ridotto alla follia fu trasferito al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove morì.
Dopo la sua morte il corpo, in ossequio alle teorie "Lombrosiane" miranti ad individuare supposte cause fisiche di devianza, fu sottoposto ad autopsia e decapitato. Si scoprì che aveva una fossetta dietro l'osso occipitale, segno della tendenza all'anarchia di un soggetto. Il cervello ed il cranio di Passannante insieme ad i suoi blocchi di appunti, rimasero esposti sino al 2007 a Roma presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. La permanenza dei resti in esposizione presso il museo ha causato proteste ed interrogazioni parlamentari. Il 23 febbraio 1999 l'allora Ministro di Grazia e Giustizia, Oloviero Diliberto, firmò il Nulla Osta alla traslazione dei resti di Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che tuttavia avvenne solo 8 anni dopo.
Ancora oggi l'azione e la figura di Passannante sono al centro di accese discussioni e contoversie. In onore e difesa dell'anarchico, l'attore Lucano Ulderico Pesce, già autore dell'opera teatrale dal titolo "l'innaffiatore del cervello di Passannante", dice: "UN UOMO CHE CHIEDEVA PUBBLICAMENTE L'AVVENTO DELLA REPUBBLICA, CHE RIVENDICAVA IL DIRITTO ALL'ASSISTENZA, AGLI OSPEDALI, ALLE SCUOLE, ALLA DIGNITÀ DEI LAVORATORI, NON DEVE ESSERE CERTAMENTE ESSERE TENUTO NEL MUSEO DEL CRIMINE, PERCHÈ CERTAMENTE NON ERA UN CRIMINALE".
La sepoltura di Passannante era prevista per l'11 maggio 2007, in seguito ad una cerimonia funebre che si sarebbe dovuta tenere il medesimo giorno nella chiesa madre di Savoia di Lucania. Essa invece avvenne senza rito funebre il giorno precedente a quello stabilito. Infatti Pesce nel suo libro, quando descrive la scena del prelevamento del cervello dal museo, scrive: ....... il cervello pensa "che bello, torno a casa dopo quasi 100 anni di esposizione,......... ma io vi aspettavo domani". La sepoltura avvenne alla presenza del Sindaco donna di Savoia di Lucania, di una giornalista e di una sottosegretaria della Regione Basilicata. A tal proposito, sempre nellibro di Pesce, il cervello pensa: "l'Italia è cambiata .... comandano le donne". La decisione di anticipare segretamente la sepoltura fu giustificata ufficialmente come necessaria ad evitare problemi di ordine pubblico.
Comunque sia grazie soprattutto all'impegno di Ulderico Pesce ed alla sua raccolta di firme, l'eroe Lucano, dopo 71 anni di esposizione, ha avuto sepoltura. Resta l'indignazione per le ingiustizie del passato che caro Giovanni Passannante sono esattamente le stesse di oggi: gli eroi passano per pazzi, i politici sono potenti approfittatori, le donne non comandano, la verità viene camuffata con loschi giochi di potere e disinformazione, ecc., ecc., ecc., ecc.