Viaggio nel Pollino:
la carovana è la mia mente, la strada sono le cose che amo, la meta è la mia terra e il viaggio è la mia vita

venerdì 13 dicembre 2013

Una Piccola Impresa Meridionale

Il film, diretto da Rocco Papaleo e ispirato al romanzo omonimo, ruota attorno alle vicende di un ex prete, Don Costantino, interpretato proprio da Papaleo, confinato da sua madre al vecchio faro di famiglia, affinché non si sappia il motivo della sua svestizione: si era innamorato, spretato, ma poi è stato mollato (con la frase “Amavo il prete che era in te, non l’uomo!”). La madre, che già doveva affrontare la vergogna della figlia (Claudia Potenza) che ha tradito il marito ed è scappata con un misterioso amante, addolorata si crogiola su cosa potrà dire ora la gente del paese!
La storia, ambientata in un ipotetico Sud dell’Italia (anche se le scene sono state girate interamente in Sardegna, con un paesaggio da sfondo incantevole), in maniera semplice, sarcastica, scanzonata e diretta, ci pone davanti ad alcuni dei principali nei della società contemporanea: i pregiudizi, il pettegolezzo, le apparenze da mantenere, la chiusura verso il diverso. Il vecchio faro in disuso dovrebbe garantire a Costantino l’isolamento ed invece attira l’attenzione di tutti, soprattutto delle persone più reiette: dall’ex prostituta, Magnolia (sorella della colf, che poi è l’amante misteriosa e ancor più grave lesbica), al cognato abbandonato, Arturo (uno Scamarcio preso in giro dai ragazzini, proprio in quanto cornuto), fino alla stravagante ditta di ristrutturazioni (la ”Meridionale Ristrutturazioni S.r.l.s”, che quando Rocco chiederà al titolare cosa significa, quello gli risponderà: “Società a responsabilità limitatissima”!), chiamata per riparare il tetto del faro (“Piove in cinque parti, un tempo dispari…” “E’ grave?” “E’ jazz!”). Infine giungeranno anche la sorella dell’ex prete con l’amante e la madre, che a quel punto scoprirà che la figlia è lesbica. Dopo un primo momento di rabbia, indignazione e disperazione, tutti insieme i protagonisti, saranno “costretti” ad accettare la presenza ciascuno dell’altro e saranno chiamati a dare il meglio di sé, al di là di ogni preconcetto, nella ricostruzione del loro futuro, legato proprio al faro, che grazie alla ditta diventerà un bellissimo hotel. Da notare la sorta di accoppiata di “ex” (ex prete, ex prostituta, ex coniugi), come se i vari personaggi fossero in cerca di nuova collocazione, nella propria vita e nella società, per rinascere animati da maggiore passione ed entusiasmo, riscoprendo così, attraverso il cambiamento, il valore autentico dell’esistenza. Altro elemento importante e di unione è la musica, mai casuale e sempre presente nelle diverse espressioni d’arte di Papaleo ( da cabarettista, ad attore, scrittore e da Basilicata Coast to coast a Piccola impresa meridionale), tanto che si potrebbe parlare di narrazione musicale. 
A mio parere le vicende del film si avvicinano molto al modo di raccontare e alle opere di Opzetek (come ad es. Mine Vaganti), in cui tutte le costruzioni sociali ironicamente vengono fatte a pezzi, in una specie di esplosione-implosione, crollano false certezze e apparenze, e vengono a galla le contraddizioni della realtà, ma soprattutto la verità ed è allora che si può iniziare a vivere per davvero, senza più maschere. Il finale è solo apparentemente lieto e per nulla scontato, poiché mostra come in realtà siano duri a morire i pregiudizi all’interno della società. Infatti, nonostante sembrasse ripristinata l’armonia tra i vari personaggi, uniti dal progetto dell’hotel, all’inaugurazione della splendida struttura, occasione in cui viene celebrato dall’ex prete, il matrimonio lesbo, tutti gli ospiti, intervenuti all’evento, sdegnati si alzano e vanno via. Molto intenso e forte il sermone che nulla può dinnanzi all’ottusaggine bigotta della gente (“…Per tutto il tempo in cui il vostro amore sarà sincero, vi dichiaro unite come persona a persona). Poco male, mediante un difficile percorso di crescita e di rinascita, la piccola impresa è riuscita comunque, e poi ad ogni traguardo raggiunto non bisogna dimenticare che occorre continuare a lottare. 
 

martedì 10 dicembre 2013

CIAO

ritorno, dopo un pò di assenza, con i due post "elogio della lentezza" e "omaggio alla meraviglia" ispirati dai luoghi, dalle persone che mi circondano e dall'amore per Chiara.

OMAGGIO ALLA MERAVIGLIA

Che spettacolo guardare gli occhi dei bambini illuminati della gioia contagiosa della meraviglia… e che peccato non poterlo riscontrare con la stessa potenza nei grandi!
La meraviglia, lo stupore, sono la porta verso il mistero del mondo, sono i modi attraverso i quali si impara, si conosce la realtà. I piccoli si meravigliano perché non danno il mondo per scontato. E’ una maniera di sapere che viene da dentro, non arriva dal bombardamento di stimoli esterni. Ma occorre coltivare questo dono divino dell’infanzia, poiché è l’unico, a mio parere, che da adulti ci aiuterà a riconoscere la bellezza in tutte le sue forme! Sul tema Catherine L’Ecuyer (canadese residente in Spagna e mamma di quattro figli) ha scritto un libro appena tradotto in Italia: “Educare allo stupore”. L’autrice, senza mezzi termini, sostiene che l’eccessiva stimolazione, il sottoporre i figli ad un bombardamento sensoriale smisurato, senza rispettare i tempi del bambino, annulla la propensione allo stupore, all’immaginazione, generando bambini svogliati e passivi, che si annoiano, apatici (di un’apatia irrequieta perché assuefatti dal rumore di fondo dei loro impegni). Bambini la cui principale motivazione proviene esclusivamente da sollecitazioni esterne, non possono che diventare iperattivi, nervosi, difficili da gestire, che cercano di richiamare l’attenzione degli adulti violando le regole. Questo crea una serie di conseguenze (se non veri e propri disturbi): difficoltà a stabilire legami, riconoscere l’autorità, gestire la propria sfera emotiva, con tendenze a volte violente. Quello che conta in verità è la qualità della relazione, a cominciare dalla famiglia, che fa la differenza nello sviluppo della personalità di un bambino e non solo una stimolazione sensoriale eccessiva, nella speranza di costruire cervelli migliori. Da qui il consiglio di rispettare i loro ritmi, i loro limiti, il silenzio, l’innocenza. Privare il bambino dello stupore, equivale a circondarlo di poca bellezza, a rubargli l’infanzia. 
 
Affinchè anche gli adulti non divengano ciechi davanti alla bellezza del mondo dovrebbero (come anche Gesù sottolinea nel Vangelo) riappropriarsi di quel dono che ci apre la porta verso l’inesplicabile e che solo lo sguardo del bambino sa attraversare, di quel desiderio di conoscenza infinito, che è la capacità di meravigliarsi. Il mistero non è ciò che non si comprende, ma ciò che non sapremo mai: l’incommensurabile. I bambini tendono istintivamente ad accogliere il mistero della vita, perché è ciò che mantiene vivo il loro desiderio di conoscere e ne restano incantati perché scorgono un’infinita opportunità di sapere. Einstein ha detto: ”La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele. Abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”. Ed è vero: instillando presto e contro natura atteggiamenti ragionevoli e comportamenti adulti nel bambino, si uccidono in lui la fantasia, la creatività, la capacità di stupirsi e di meravigliarsi. I bambini, ed anche gli adulti, devono sentire il bisogno di abbandonarsi alla meraviglia, imparare ad alzare lo sguardo verso il cielo, guardare una lumaca trascinarsi, un fiore crescere, una goccia di rugiada scivolare. Se educare allo stupore significa educare il bambino alla bellezza e al mistero che lo circonda, nell’adulto è necessario invece mantenere tale sguardo per aprirsi al senso della vita.

ELOGIO DELLA LENTEZZA

Ho sempre creduto ai benefici del “vivere” lentamente, considerando soprattutto i ritmi frenetici a cui la quotidianità contemporanea ci espone, costringendoci ad una vita vertiginosa che, a mio parere, ha contribuito a creare una società sempre più nevrotica e ansiogena, non posso che essere un sostenitore della lentezza, pur rendendomi conto che dovremmo fare i conti con i sensi di colpa per il tempo che apparentemente perderemmo…
Mi è piaciuto il consiglio dello scrittore Luis Sepùlveda,( autore, oltre che della gabbianella, il gatto e il topo, di una nuova fiaba dedicata ad una lumaca che ribellandosi alla sua indole lenta, scoprirà da sola che la velocità non aiuta a vivere meglio): “Entrate in letargo, sarà produttivo!”.
Al di là delle mode o di forme di protesta come Slowfood (che peraltro condivido: mangiare solo frutta di stagione, recuperare la tradizione in agricoltura senza interventi genetici, ecc.), e partendo dalla considerazione obiettiva che alcuni luoghi, come quello in cui vivo e in generale credo gran parte del Sud del mondo, sono certamente più “compatibili” con il vivere la lentezza, penso che la grande assente della nostra vita sia proprio questa dimensione essenziale dell’esistenza, che ci dà memoria: la lentezza. Ne abbiamo paura, vogliamo andare avanti,avanti e avanti, parliamo senza pensare, non ci fermiamo a parlare, divoriamo ogni esperienza con una rapacità bulimica, solo apparentemente multimediale, ma vuota, non riusciamo a fissare veramente nulla, neppure i ricordi. E questo è un peccato perché ci perdiamo le cose più importanti della vita, la velocità deforma lo sguardo e ci rende sempre più insoddisfatti. Ad esempio, dicono che Internet sia una forma di comunicazione velocissima, ma per me è un modo di rapportarsi, la comunicazione è altro. Così perdiamo la possibilità di fermarci e chiederci: è questa la direzione che volevo? Come i versi del poeta Vladimir Majakovskij: “Fermati, come il cavallo che intuisce l’abisso negli zoccoli, sii saggio, fermati”. Solo in tal modo ci si può ritrovare, se stessi, il rapporto con gli altri, autenticamente. Fatelo a casa, fuori: ascoltatevi, fermatevi e ridete, sarà produttivo e consentirà di recuperare un senso morbido del tempo, oltre che il valore delle cose.

martedì 13 settembre 2011

Fortapàsc e Giancarlo Siani: QUANDO IL GIORNALISMO DIVENTA PUBBLICA INDIGNAZIONE, DENUNCIA E SINCERO ANELITO ALLA LEGALITA’


Il titolo del film, diretto da Marco Risi e dedicato alla memoria del padre (il grande regista Dino, morto a pochi giorni dal primo ciak), viene dalla frase pronunciata dal sindaco colluso di Torre Annunziata, Cassano, (condannato a sette anni e mezzo e rientrante a pieno titolo in quell’aspirale di tangentisti e faccendieri, in quel mondo di commesse e corruzione, sordo alle idee di Siani che si muovevano, come oggi Saviano, per una Napoli, per un’Italia migliore), dopo l’ennesima strage della camorra: “Non siamo a Fort Apasc”. La pellicola, andata in onda il 5 settembre sulla Rai, non è l’ennesima agiografia di una vittima annunciata della camorra, lasciata sola e dimenticata dallo Stato e dalla collettività, ma è un ricordo esteso alle tante vittime della criminalità organizzata, oltre che la ricostruzione della vita semplice e al tempo stesso appassionata, come le pagine impetuose che scriveva sulla filosofia della malavita organizzata, di Giancarlo Siani, giovane giornalista, o meglio “praticante, abusivo”, come amava definirsi, del “Mattino”, col sogno, non molto diverso da quello di un giovane d’oggi, di un contratto giornalistico, ma con la differenza di volersi impegnare nella denuncia del degrado che lo circondava, attraverso un’inchiesta incriminante contro i boss camorristi e i politici collusi. Nello specifico, Siani, incomincia a diventare personaggio scomodo quando s’interessa degli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto dell’Irpinia del 1980 nei dintorni del Vesuvio, un giro di miliardi su cui la camorra ha messo le mani. E’ il 23 settembre del 1985 quando Giancarlo Siani a soli 26 anni, a bordo della sua mitica Citroën Méhari (sempre la stessa, così fragile ed identificabile da essere una metafora perfetta), viene ucciso sotto casa della sua fidanzata dal clan Nuvoletta, perché reo di aver fatto il suo lavoro, di essersi informato, di aver verificato criticamente le notizie, di aver indagato sui fatti e soprattutto di aver messo a fuoco conflitti interni alla camorra e le connivenze di questa con la politica locale.

Sullo sfondo c’è Napoli e l’isteria collettiva che circondava negli anni ottanta Maradona, involontario capopolo, occasione di riscatto, speranza di rivalsa calcistica e sociale, sul ricco Nord. Napoli come corpo corruttore e Napoli come generatrice di “antidoti” capaci di riequilibrare, moralmente, l’ordine esistente.

Dalle kafkiane riunioni comunali o i pubblici comizi in cui le arti demagogiche del sindaco (celebre la tempesta esplosa proprio mentre si parlava della necessità della legalità in Campania e il commento di Siani: “Quella pioggia poteva fare pulizia, ma anche la pioggia a Torre Annunziata diventava subito fango”), che si ergono ad emblema caratterizzante un certo modo di fare politica (ahi noi oggi imperante), alla citata differenza tra giornalisti-giornalisti, di cui Giancarlo faceva parte e con lui tutti coloro che mettono continuamente a repentaglio la propria vita, nella ricerca della verità, e giornalisti-impiegati che in un clima di intimidazioni e connivenze, ad essa non s’interessano, anzi la nascondono, ai vicoli minacciosi e diroccati del centro storico, in cui la tensione aumenta e si respira un’atmosfera di morte, quella delle varie faide in atto, e dove si percepisce chiaramente la prepotente legge dei più forti: degli Alfieri, dei Gionta, dei Nuvoletta e di tutti i clan che comandavano ieri come comandano oggi. Un contrasto lampante con lo sguardo dolce e tenace di Giancarlo, che sorride ingenuamente mentre i killer lo uccidono senza pietà, quasi come se non celasse la consapevolezza che il suo sacrificio non sarà vano, anzi servirà a mutare qualcosa, nel senso che concorrerà a svegliare le coscienze… ma solo se tutti noi sapremo conservarlo nella nostra memoria civile.

In Fortapàsc viene messa in piazza una classe politica che mira alla propria autoconservazione, una società “incivile”, che distrugge ogni possibilità di progresso ed un giornalismo (impiegatizio) che continua ad ignorare le proprie responsabilità nell’alimentare una simile condizione di degrado morale, sociale, civile.

lunedì 5 settembre 2011

IL GRANDE CAPO

Siamo sul Pollinello e l’aria rarefatta e fresca ci accarezza il viso con la leggerezza di un battito d’ali. Nonostante sia estate, l’afa è rimasta a valle, quasi a segnare il confine tra due scenari, due mondi completamente diversi. Ci arrampichiamo sui costoni per vedere da vicino i pini loricati, ma quanto più ci avviciniamo alla meta, tanto più la vegetazione si fa rada, così come i meravigliosi faggi che le facevano da cornice.

Ed è allora, nel momento in cui non vi sono più alberi a nascondere alla vista l’incredibile panorama dall’alto, che, quasi d’impatto, si apre sorprendentemente dinnanzi a noi un’immensità così dirompente che siamo costretti a fermarci, a sospendere per qualche attimo il nostro cammino. Da quassù tutto appare così infinitamente piccolo, noi ci sentiamo così piccoli ed insignificanti, come gettati nella nostra datità e legati a quel momento, a quel luogo, alla limitatezza del nostro corpo.
Come nella sindrome di Stendhal, il nostro umano sguardo non è in grado di abbracciare tutta la bellezza in cui s’imbatte, non può sostenere la vista di una simile ineffabile grandezza e, inevitabilmente, sopravviene quel senso di vertigine e sgomento, quello stesso che pone l’uomo davanti a se stesso, al mistero della vita e della morte, all’inesplicabile esistenza di Dio e di una natura così viva e vera. Quasi che occorresse sentire quell’angosciante sensazione di “perdita”, di “mancanza”, per poter avvicinarsi al senso delle cose e restituir loro un nuovo, più autentico valore.
Però, riconoscere un limite, come scriveva Martin Heidegger, è anche superarlo; per cui dobbiamo proseguire, anche perché ormai i pini loricati si ergono davanti a noi, in tutta la loro eleganza, nella loro immobilità-dinamicità modellata dal vento e dagli agenti atmosferici, e ci attirano con la loro fortezza, dalla quale traiamo anche la nostra. Ancora il Patriarca, o “padre-capo”, dal greco antico, non si vede.
Occorre andare al di là della dolina, che sembra quasi una steppa. Lo sguardo avido può per il momento riposare e cedere alla sensazione di profonda serenità interiore di cui, in quest’orizzonte più circoscritto e rassicurante, la montagna e i pini millenari ci fanno dono.
A questo punto, ecco scorgere il superbo e potente gigante che vive lì, sfidando da secoli ogni sorta di intemperia, arroccato silente ed enigmatico, al punto da essere un tutt’uno con la roccia sottostante. La lucentezza del tronco tortuoso e la possenza dei rami contorti ci dà come l’impressione di trovarci al cospetto di un anziano saggio, che pare celare l’inesplicabile segreto dell’essere. Ci sediamo sulle possenti radici, per riposarci e godere della tranquillità che ci trasmette la sua fisicità dirompente, allo stesso modo in cui un bambino si abbandonerebbe sulle gambe del nonno ed incantato ed ammirato lo guarderebbe attento per ascoltare ciò che più di caro ha da insegnargli e trasmettergli. Così, sazi di tutti i sensi, avvolti dall’eterea atmosfera, rispettosamente ci rincamminiamo verso la valle, nella convinzione di rivederci presto.

GIOVANNI PASSANNANTE: l'eroe Lucano e l'arroganza dei Savoia

Lo strepitoso attore Lucano, Ulderico Pesce, con questo film, racconta la storia dell'Eroe Lucano Giovanni Passannante, dell'insorgere della questione meridionale con le sempre misere condizioni della Nostra Terra a fare da scenario.


Passannante nacque a Salvia (OGGI INGIUSTAMENTE SAVOIA DI LUCANIA), nel 1849, ultimo di 10 figli. Le difficili condizioni economiche della sua famiglia ebbero una decisiva influenza sulla sua formazione. Cresciuto nel tentativo di affrancarsi dalla fame, che lo costringeva a lavori saltuari da bracciante e guardiano di greggi, si recò a Potenza, dove trovò lavoro come sguattero presso un'osteria. Più tardi un capitano dell'esercito (nativo come lui di Salvia), notato il vivo interesse del ragazzo per gli studi, lo prese a servizio presso di sè e gli assegnò un vitalizio che gli consentisse di integrare la propria istruzione scolastica.
Abbracciate le idee repubblicane e poi anarchiche simulò, allo scopo di far aprire un risonante processo di carattere politico, un attentato ai danni di Umberto I° di Savoia e di sua moglie Margherita, in visita a Napoli nel 1878. Al momento dell'attacco al re, brandendo un coltellino avente una lama di 4 centimetri, definito al processo "buono solo per sbucciare le mele", gridò: "viva la Repubblica Universale".
Giovanni Pascoli, intervenendo ad una riunione socialista a Bologna, diede lettura di una sua ode dedicata a Passannante. Di tale ode si conosce solo il contenuto dei versi conclusivi: "con la berretta di un cuoco faremo una bandiera". All'agitazione antimonarchica, che interesso il paese dopo l'azione di Passannante, si tentò di far fronte con una pesante opera di repressione che investì l'intero territorio italiano. I famigliari dell'attentatore, colpevoli solo di essere suoi consanguinei, furono arrestati e condotti al manicomio criminale di Aversa. Il Sindaco del paese di origine di Passannante fu costretto a recarsi al cospetto del Re implorando perdono ed umiliandosi al punto di offrire ai Savoia il nome del suo paese che così mutò da Salvia a Savoia di Lucania.
L'anarchico fu condannato a morte, sebbene il codice penale prevedesse la pena capitale solo in caso di morte del Re e non di ferimento. Successivamente con Decreto Regio del 1878, la pena gli fiu commutata in ergastolo, che Passannante scontò in condizioni disumane sull'Isola d'Elba, rinchiuso in una cella alta solo 1,4 metri (mentre lui era alto 1,6 metri), priva di latrina, posta sotto il livello del mare, rimase senza poter mai parlare con nessuno e visse in completo isolamento per anni tra i propri escrementi legato ad una catena di 18 chili. Passannante affrontò questa tortura abberrante piuttosto che farsi passare per pazzo ed evitare così ciò per cui aveva agito: un processo politico davanti alla corte costituzionale. Le condizioni disumane di detenzione di Passannante furono oggetto di una denuncia, dell'On.le Agostino Bertani e della giornalista Anna Maria Mozzoni, a seguito della quale il prigioniero ormai ridotto alla follia fu trasferito al manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove morì.
Dopo la sua morte il corpo, in ossequio alle teorie "Lombrosiane" miranti ad individuare supposte cause fisiche di devianza, fu sottoposto ad autopsia e decapitato. Si scoprì che aveva una fossetta dietro l'osso occipitale, segno della tendenza all'anarchia di un soggetto. Il cervello ed il cranio di Passannante insieme ad i suoi blocchi di appunti, rimasero esposti sino al 2007 a Roma presso il Museo Criminologico dell'Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. La permanenza dei resti in esposizione presso il museo ha causato proteste ed interrogazioni parlamentari. Il 23 febbraio 1999 l'allora Ministro di Grazia e Giustizia, Oloviero Diliberto, firmò il Nulla Osta alla traslazione dei resti di Passannante da Roma a Savoia di Lucania, che tuttavia avvenne solo 8 anni dopo.
Ancora oggi l'azione e la figura di Passannante sono al centro di accese discussioni e contoversie. In onore e difesa dell'anarchico, l'attore Lucano Ulderico Pesce, già autore dell'opera teatrale dal titolo "l'innaffiatore del cervello di Passannante", dice: "UN UOMO CHE CHIEDEVA PUBBLICAMENTE L'AVVENTO DELLA REPUBBLICA, CHE RIVENDICAVA IL DIRITTO ALL'ASSISTENZA, AGLI OSPEDALI, ALLE SCUOLE, ALLA DIGNITÀ DEI LAVORATORI, NON DEVE ESSERE CERTAMENTE ESSERE TENUTO NEL MUSEO DEL CRIMINE, PERCHÈ CERTAMENTE NON ERA UN CRIMINALE".
La sepoltura di Passannante era prevista per l'11 maggio 2007, in seguito ad una cerimonia funebre che si sarebbe dovuta tenere il medesimo giorno nella chiesa madre di Savoia di Lucania. Essa invece avvenne senza rito funebre il giorno precedente a quello stabilito. Infatti Pesce nel suo libro, quando descrive la scena del prelevamento del cervello dal museo, scrive: ....... il cervello pensa "che bello, torno a casa dopo quasi 100 anni di esposizione,......... ma io vi aspettavo domani". La sepoltura avvenne alla presenza del Sindaco donna di Savoia di Lucania, di una giornalista e di una sottosegretaria della Regione Basilicata. A tal proposito, sempre nellibro di Pesce, il cervello pensa: "l'Italia è cambiata .... comandano le donne". La decisione di anticipare segretamente la sepoltura fu giustificata ufficialmente come necessaria ad evitare problemi di ordine pubblico.
Comunque sia grazie soprattutto all'impegno di Ulderico Pesce ed alla sua raccolta di firme, l'eroe Lucano, dopo 71 anni di esposizione, ha avuto sepoltura. Resta l'indignazione per le ingiustizie del passato che caro Giovanni Passannante sono esattamente le stesse di oggi: gli eroi passano per pazzi, i politici sono potenti approfittatori, le donne non comandano, la verità viene camuffata con loschi giochi di potere e disinformazione, ecc., ecc., ecc., ecc.

mercoledì 19 gennaio 2011

Piano Visitone, Colle dell'Impiso e Piano Ruggio: la ricchezza della neve e l'incapacità delle istituzioni.

Piano Visitone (1.350 metri slm) e Piano Ruggio (1.550 metri slm) sono due località, site nel Comune di Viggianello, che rappresentano l'ingresso al Parco Nazionale del Pollino. Con le loro morbide forme, la loro agevole raggiungibilità in auto, la presenza di rifugi/strutture ricettive, i due pianori in inverno si trasformano in un meraviglioso parco giochi della neve.
  In questo soleggiato e mite 9 gennaio 2011, con la voglia di raggiungere le cime innevate del Pollino, che da mesi cresce nel cuore, ed il pochissimo tempo a disposizione, una serena passeggiata, anche se meno emozionante di quelle possibili sulle vette, tra le dolci distese imbiancate di Visitone e Ruggio offre comunque scenari che riempiono l'animo di gioia. Arrivati a Visitone la sensazione di benessere, causata dalla combinazione delle freschezza dell'aria, del candore della neve e del calore del sole, contrasta fortemente con l'indignazione che assale quando si constata che la strada che collega Piano Visitone a Piano Ruggio, passando per Colle dell'Impiso (1.573 metri slm), principale punto di partenza per le escursioni sul Pollino, è tappezzata da lastroni di ghiaccio che ne impediscono l'agevole transitabilità. Rimasti bloccati dall'incapacità delle istituzioni preposte alla gestione del territorio, non riusciamo a ripartire, per raggiungere Piano Ruggio, e quindi beneficiamo dei giochi emozionali offerti da una passeggiata tra i boschetti innevati dei pendii e la vetta rocciosa di Colle dell'Impiso. Ci si chiede come sia possibile che non si capisca l'importanza, di tenere pulite le strade, e non dico di una programmazione finalizzata alla valorizzazione delle risorse turistiche, troppo lontana per le menti che ci amministrano, tuttavia tale è la bellezza di questo spettacolo invernale che la miopia di chi avrebbe il compito di valorizzarla non riesce a rovinarne la percezione


giovedì 4 novembre 2010

Dagli dei del Pollino a quelli della Sicilia Sud Orientale

Noto, patrimonio dell'umanità, è un piccolo gioiello barocco incastonato tra ulivi, mandorli, agrumi ed il mare trasparente che, dalla Riserva Naturale di Vendicari all'Isola delle Correnti, riflette la luce del sole. Anche le strade principali seguono il percorso del sole percorrendo la cittadina da est a ovest. La luce del tramonto accentua la tinta dorata e rosata della pietra calcarea locale con cui sono costruiti i maestosi palazzi, le chiese e la piazze. Ci accoglie, all'ingresso in città, la "fortezza" e la "fedeltà" rappresentate dalla torre e dal cirneco della Porta Reale, monumentale ingresso che richiama l'arco di trionfo.


Passeggiando per la cittadina veniamo travolti dalle inebrianti linee, curvature delle facciate, decorazioni, riccioli, volute, mascheroni, putti, parapetti, forme aggraziate e panciute che inondano lo spazio dalla chiesa di San Francesco all'Immacolata, al convento di Santa Chiara, Piazza Immacolata, Piazza Municipio, Palazzo Ducezio, Basilica del SS.Salvatore, fino alla maestosa Cattedrale o chiesa Madre di San Nicolò.

La bellezza della Sicilia Sud Orientale, da Ragusa a Siracusa, passando per Portopalo, Pachino e Avola, ci riempie l'anima di luce, gli occhi di vivaci colori, la bocca di dolci sapori e la mente di epiche storie e leggende.

venerdì 24 settembre 2010

I Pini Loricati di Serra di Crispo

 Il “cimitero dei dinosauri”, l’“Olimpo”, il “Giardino degli Dei” sono solo alcune delle espressioni usate per descrivere il “santuario” dei pini loricati di Serra di Crispo.

Appaiono immutabili nel loro secolare presidio ai monti del Pollino, ma anche loro si lasciano modellare dall'azione implacabile del vento, dell'acqua, della neve e del sole ed è proprio questo forse il segreto della loro bellezza, conservare la propria maestosità armonizzandola con gli elementi che la circondano.


Così spero del sentire che ho nel cuore in questa giornata con loro; che resti bello e potente, conservando la sua magia, pur mutando la sua forma con il passare del tempo.


venerdì 30 luglio 2010

Escursione Monte Pollino

L'aria mattutina di Colle dell'Impiso (m. 1.573) ci deve ancora ossigenare i polmoni e già la nostra ascesa al Monte di Apollo , ci offre uno spettacolare volo nel passato: dopo aver mosso i primi passi ci si imbatte, infatti, in numerose rocce calcaree-dolomitiche nelle quali, come diamanti, sono incastonate le Rudiste , resti fossili di molluschi, scomparsi 65 milioni di anni fa, vissuti nei fondali della Tetide, il mare che divideva i due grandi continenti primordiali che sarebbero poi divenuti la placca africana e la placca europea, che successivamente parteciparono scrivere l'interessante storia geologica del Pollino. Ci avviamo così lungo l'ombrato sentiero che, insinuandosi nel fitto bosco di faggi ai piedi del versante nord della maestosa Serra del Prete, ci conduce fino ai 1.665 metri della Sorgente Spezzavummola, il cui nome ne descrive l'acqua talmente fredda da spezzare la vummola, il tradizionale contenitore in terracotta.
Riprendendo il cammino, dopo la rigenerante sosta, usciamo presto dall'ombra del bosco e ci affacciamo sullo spoglio e soleggiato Piano di Gaudolino (m. 1.684), dove, più che dal sole, siamo abbagliati dalla vista ad est del Monte Pollino e a sud ovest della Serra del Prete; ci troviamo, infatti, praticamente sulla sella che li separa.

Abbiamo negli occhi l'immagine dei Pini Loricati, aggrappati al versante nord ovest del Monte Pollino, quando ci inerpichiamo lungo il sentiero che, tagliando in diagonale, con un dislivello di circa 300 metri, il versante ovest del Monte Pollino, attraversa prima il boschetto di faggi ormai diventato più rado e poi scala la gradinata rocciosa dove dominano le vallate sottostanti solo i maestosi Pini Loricati e ci conduce fino alla Grande Dolina del Pollino (m. 1.975), nevaio stagionale che fonde del tutto solo in avanzata stagione estiva e che a volte rimane perenne.

Da qui il paesaggio pietroso, interrotto dalla presenza isolata e solitaria di temerari Pini Loricati, ci conduce fino ai 2.248 metri della vetta del Monte Pollino.


Di qui godiamo di paesaggi la cui vista ristora abbondandemente dalla fatica della salita: ad est la morbida sella che dal Monte Pollino guida lo sguardo verso la maestosa Serra Dolcedorme, a nord i luminosi Piani del Pollino racchiusi tra le rocciose Serra delle Ciavole e Serra di Crispo, a sud ovest la verde Serra del Prete e tutto intorno le mille rigogliose vallate che conducono il pensiero alle nostre dimore che sembrano essere vegliate da queste cime imponenti con i loro antichi soldati.

venerdì 4 giugno 2010

Basilicata coast to coast


"signori e signore, trovatevi una passione, e andategli appresso fino in fondo!".

Questa massima di Rocco Papaleo, esprime il senso di "Basilicata coast to coast":
vivere la propria passione diventa strumento per la ricerca di se stessi e del rapporto con gli altri.
Per alcuni questa passione è l'amore per la propria terra.


giovedì 27 maggio 2010

Dagli Dei del Pollino a quelli della Sicilia: TAORMINA

Nel turbinio dei venti possenti, solchiamo le vorticose correnti di Scilla e Cariddi, ci lasciamo alle spalle le rive della ninfa che il dio marino amò così follemente da rifiutare la bellezza di Circe ed ammiriamo la terra, dell’altra ninfa vorace, con le sue ampie insenature che delicatamente modellano la riviera incorniciata dai monti disposti a semicerchio, piena di sole e di mare, di tramonti di fuoco, come il flutto bollente delle lave dell’Etna qui ormai incantevolmente pietrificate.
 In un susseguirsi di vivi colori e splendidi paesaggi, di profumi intensi e sapori decisi, tra distese di cactus, alberi di limoni ed aranceti, scopriamo la ridente città di Taormina ( o Tauromenion, toponimo, composto da Toro e dalla forma greca menein, che significa rimanere, che narra la storia di un popolo che decide di restare a presidiare la propria terra dal monte a forma di toro) e gli scenari unici degli antichi paesi ed incantevoli luoghi che gravitano attorno ad essa, incastonati, ai piedi dell'Etna tra ripidi pendii e l'azzurro dello Ionio, come Letojanni, Castelmola, S. Teresa, S. Alessio, Catalabiano, Isola Bella, Giardini Naxos, porta d'ingresso dei Greci in Sicilia. Passeggiando estasiati per i viottoli della città, definita delle passioni, degli artisti e dei pazzi, ove ognuno poteva restare e vivere come non osava nel proprio luogo di provenienza, scopriamo immortali tesori che appartengono al suo crogiuolo di cultura greco-romana, araba, barocca e medievale. Immersi nel trionfo del glorioso passato ne ammiriamo avidi le torri, i palazzi, i castelli che si affacciano sul mare, frutto di menti temprate dal culto della bellezza che rendeva stupefacente tutto ciò che esse semplicemente mettevano in opera. Con tale senso di devozione e di emozione esploriamo la magnificenza del teatro greco, rimaniamo sopraffatti, oltre che dall’eccelsa arte architettonica, dal panorama che si rivela davanti ai nostri occhi increduli: dal basso risalendo con lo sguardo verso l’alto, dall’immensità insondabile del mare alla cornice unica dell’Etna, quella cima bianca ed imponente che sovrasta il mar Ionio spiccando in tutta la sua grandezza come un antico Titano, ancora più caratteristica quando è immersa nel pieno dell’aurora in quell’atmosfera rossastra. Il silente inquieto vulcano, maestoso ed irrequieto, ospitale e generoso, ma che sa anche essere irruento e fragoroso, è sempre pronto ad incantare con la sua magia e mai sazio di sorprendere i suoi abitanti legati ad esso da un sentimento profondo fatto di passione e timore, amore e riconoscenza. Lo stupore di ogni visitatore prende il largo su ogni altra sensazione, le semplici parole non sono in grado nemmeno di sfiorare il dolce incanto che regna in questi luoghi, né il pensiero può cogliere interamente il fascino della natura che si impone in tutto il suo splendore.

Nel tepore accogliente dell’abbraccio di questa terra, accarezzati dalla lieve brezza marina, baciati dal sole, tra indimenticabili immagini, nell’emozione vibrante trasmessa dalla grandezza dell’opere antiche avvolte dall’azzurro del cielo, ascoltando l’inconfondibile suono dello spumeggiante incontro delle onde con i neri scogli, ci sentiamo vivi.

giovedì 6 maggio 2010

Dagli Dei del Pollino a quelli della Sicilia: LA VALLE DEI TEMPLI E IL PARCO ARCHEOLOGICO DI SELINUNTE



....... gli occhi vengono inondati dagli azzurri flutti di Nettuno, il tepore dei raggi di Apollo e la dolcezza del soffio di Eolo accarezzano l'animo estasiato dalla bellezza dei luoghi e dei segni lasciati dalla grande civiltà che quì visse e vi innalzò opere eterne per le maestose divinità.


Approfondimenti:

giovedì 22 aprile 2010

Dagli Dei del Pollino a quelli della Sicilia: ERICE E IL CULTO DELLA BELLEZZA

Venere emerge dalla schiuma del mare e nuda, in tutta la sua grazia ed ineguagliabile bellezza, viene sospinta dal soffio di Zefiro, sul monte che, a breve distanza da quella spiaggia calda, si erge possente come un altare offerto alla Dea dalla madre terra.
Così questo luogo incarna l'idea dell'amore come energia vivificatrice, come forza motrice della natura.
L'irto monte Erice che si erge a picco stagliandosi sulla calda ed accogliente baia delle Saline trapanesi  non poteva che essere luogo di culto della fecondità e dell'amore. Il Castello di Venere, dove Enea nel suo viaggio si fermò per rendere omaggio alla Dea e dove si praticava la prostituzione sacra, allieta i sensi offrendo panorami mozzafiato. Tutto il borgo di impianto medioevale trasmette vibrazioni che sembrano provenire da secoli di vissuto che raccontano le storie degli Elimi, dei guerrieri che vi approdarono dopo la distruzione di Troia, delle battaglie tra Cartaginesi e Romani fino a quelle di mercanti, cavalieri, dame e principi Arabi e Normanni che agivano in questi luoghi pregni della bellezza della Dea che vi si venerava.


giovedì 25 marzo 2010

PROMESSE ELETTORALI: E' TESTA A TESTA A CHI LA SPARA PIU' GROSSA

Articolo di ANTONIO PELOSI, candidato a consigliere regionale della Basilicata nella lista IDEA, pubblicato sulla "NUOVA DEL SUD" del 22 marzo 2010 pag.6

"Pensavo (mi sbagliavo di grosso) che il tempo delle promesse era alle spalle; riscopro invece (è ancora la logica delle campagne elettorali) che da ogni lato ci si affanna a candidare la vincente: sarà quella dei mille tirocini formativi nella P.A. sotto la diretta gestione dell'assessorato alla formazione, sarà quella della dichiarata apertura dell'ufficio di collocamento virtuale (Io Sud) o quella ancora del bonus dei 200€ sulla benzina (Scajola) a titolo di risarcimento per i danni provocati dall'estrazione petrolifera.
Da tutte le parti (destra, sinistra, centro) si levano polveroni di chiacchiere (si chatta per stare nel linguaggio dell'informazione tecnologica) ancora nel segno della falsità, delle frottole, delle illusioni.
Bene si farebbe s stare con i piedi per terra vuoi per ridare fiducia ai cittadini, vuoi per meglio rappresentare le istituzioni le quali devono essere impegnate a preseguire con tenacia obiettivi legati ALLA TUTELA DELLE ACQUE DA NON PRIVATIZZARE, ALLE CENTRALI ELETTRICHE DA NON FAR CONVIVERE NEI PARCHI NAZIONALI E TERRITORIALI (CENTRALE DEL MERCURE) ALLA MERITOCRAZIA (NELLEE P.A. SI ACCEDE CON PUBBLICO CONCORSO) ALLA RICCHEZZA DISTRIBUITA (RIMODULAZIONE DELLE ROYALTIES oggi stabilizzate al 7% con caro benzina in Basilicata di almeno tre punti percentuali in più rispetto alle limitrofe regioni) alla tutela dell'ambiente, della sanità, dell'agricoltura, del commercio, del turismo..................
Forse dovremmo partire da qui!


mercoledì 17 marzo 2010

C'era una volta la città dei matti: la lotta per la libertà di Franco Basaglia


Qualche settimana fa sono stato stupito dalla televisione vedendo la fiction “C'era una volta la città dei matti”. Infatti considerato che di norma, operando esclusivamente secondo la logica dell’audience, propone solo squallidi format che fanno leva sulle miserie della nostra società e su illusori modelli che sembrerebbero essere in grado di superarle, ed essendo, tra l’altro, diventata strumento di regime, mi ha colpito che, con questa ed altre mini serie, la Rai si sia dedicata a temi di profonda valenza storico-sociale e di grande spessore etico-esistenziale.

La fiction “C'era una volta la città dei matti” è dedicata alla rivoluzione condotta da Franco Basaglia, padre della legge che nel 1978 portò alla chiusura dei manicomi e che cambiò il modo di intendere e curare le malattie mentali. Una svolta importante che fece dei “matti”, ritenuti irrecuperabili pericolosi da internare e sottrarre alla vista della società “normale”, dei pazienti, dei malati cui restituire dignità, identità, anima e quelle libertà individuali che erano state loro tolte e negate iniquamente. La cosa più importante era il profilarsi di un possibile reinserimento, ritorno, alla vita di relazione, seppur lungo, faticoso e non privo di contraddizioni sociali. Il contesto era quello dell’Italia degli anni 70, che dopo il faticoso dopoguerra, era travolta ed irretita dal boom economico e che non si poteva permettere rallentamenti nella corsa verso la crescita, dove i malati mentali oltre ad essere considerati degli inutili pesi, inadatti, inadeguati, risultavano essere improduttivi, non conformati alle leggi capitalistiche. Pertanto venivano reclusi in un mondo fatto di degrado, abbandono e solitudine, dove le uniche cure erano sedativi, “bagni calmanti”, gabbie, elettroshock, letti con le cinghie che unitamente alla detenzione forzata contribuivano a perpetuare lo stigma della loro alienazione. Tutto ciò nell’indifferenza, non curanza dei familiari e del mondo esterno, sociale e psichiatrico. Nulla si faceva per ascoltarli, dargli voce e quindi guarirli. Inoltre i manicomi fungevano da contenitori indifferenziali, in cui venivano raccolte ed ammassate forzatamente le più svariate tipologie di interdetti dalla società, dagli schizofrenici, ai depressi, dagli autistici agli epilettici, persino gli eccentrici, fino ai reduci della guerra che continuavano a vivere le inguaribili ferite dell’assurda, insensata, inaudita violenza nazi-fascista. Dinanzi a tanta sofferenza cominciò la lotta di Basaglia contro i “lager della mente”, al fine di riscattare e restituire dignità ai suoi pazienti, riconoscendoli innanzitutto come persone titolari di diritti civili. Ma non basta avanzare un diritto per affermarlo e così cominciò la battaglia, che portò alla legge 180/78, contro gli interessi forti della società italiana di psichiatria, l’opposizione dell’ambiente politico soprattutto cattolico e dei sindacati, l’insensibilità delle famiglie e della società civile. Fu ed è difficile affermare idee basate sull’amore per la diversità, ma le sbarre divelte del manicomio triestino di San Giovanni smisero di essere un simbolo e divennero una rivoluzione legale basata su un concetto che ancora oggi è scritto sul muro esterno del San Giovanni, un tempo barriera inviolabile: “la libertà è terapeutica”. Ma anche oggi è fin troppo evidente che dobbiamo ancora imparare ad aiutare attraverso l’amore chi ne ha bisogno, nella consapevolezza che il contatto con la diversità non può che arricchire tutti e magari rendere migliori coloro che si considerano “sani” e “normali” e che, in realtà, troppo spesso sono essi stessi ad essere inabili, perché non sanno dare e non sanno prendere.

venerdì 12 febbraio 2010

AVATAR: altro che fantascienza

"loro non possono capire.....hanno ucciso la loro stessa Madre".
Solo se l'uomo imparerà a stabilire un contatto, a "vedere", a cercare l'armonia, con tutti gli altri esseri viventi potrà cambiare questo sistema basato sulla visione utilitaristica di ciò che lo circonda ed evitare l'autodistruzione. 

"noi ci adoperiamo con ardore a sfuttare tutte le forze dell'universo per aumentare sempre più la nostra potenza; ci azzuffiamo per le sue ricchezze, lo trasformiamo in un campo di feroci contese. Ma eravamo nati per questo, per badar ad accresere solo i nostri diritti di proprietà sul mondo e ridurlo a mercanzia posta in vendita? Quando la mente nostra si rivolge tutta solo ad utilizzare le cose del mondo, questo perde il suo vero valore per noi. Con le nostre sordide brame noi lo deprezziamo; per tutta la vita non ci preoccupiamo che di riuscire a mantenerci a carico suo e perdiamo quindi il senso della sua verità, come un bambino ingordo che strappa i fogli di un libro prezioso per inghiottirli........così l'uomo ha perduto il suo più alto valore per diventare un oggetto qualunque, talvolta è considerato unicamente come corpo che può essere venduto.
Di conseguenza le nostre brame, la nostra avidità, il soverchio amore del nostro comodo, arrivano a ridurre l'uomo al suo più basso valore. I nostri desideri ci rendono ciechi verso la verità che è nell'uomo e questa è la pù grande ingiuria che noi possiamo fare all'anima nostra, poichè offusca la nostra coscienza ed equivale ad un lento suicidio spirituale. Da ciò derivano le brutte piaghe della civiltà , come i metodi organizzativi di sfruttamento delle razze straniere, privandole del diritto di governarsi da sè e di provvedere al proprio sostentamento e sviluppo. Certamente l'uomo deve essere utile al suo simile, essendo il corpo umano una meravigliosa macchina e la mente un organo di sorprendente potenzialità; ma l'uomo è anche spirito e lo spirito si rivela nella sua verità solo per mezzo dell'amore. Quando apprezziamo un uomo in base all'utile che pensiamo di ricavarne, noi ne abbiamo una conoscenza imperfetta e tale nostra deficienza ci rende ingiusti facilmente verso di lui........quando invece lo conosciamo come essere spirituale lo consideriamo parte di noi stessi; immediatamente allore comprendiamo che il male fatto a lui è fatto a noi stessi, che il voler deprezzare il nostro simile è defraudare la nostra umanità e che cercando si servirci di esso unicamente per il nostro tornaconto, acquistiamo in ricchezza ed agio ciò che perdiamo in conoscenza della verità"



domenica 7 febbraio 2010

Monte Sirino: magie dell'inverno

Le vette, le pareti alberate e gli avvallamenti, i tuoi fianchi sinuosi,
il bianco e luminoso manto innevato, la tua candida pelle,
l’immensità e la trasparenza del cielo, i tuoi occhi profondi,
il sole dorato, il tuo luminoso sorriso,
i possenti alberi, le braccia protese del tuo caldo abbraccio,
l’aria pura e fresca, il tuo passionale respiro,
il sussurrio del vento, le tue dolci parole,
la gioia che sento, la bellezza del tuo animo,
grazie Monte Sirino per avermi donato attimi di paradiso.
“Dolce sentire come nel mio cuore
ora umilmente sta nascendo amore
Dolce capire che non son più solo,
ma che son parte di una immensa vita
che generosa risplende intorno a me ………"
(San Francesco d’Assisi – Dolce Sentire - Fratello Sole e Sorella Luna)